Intervista a Lucio Leoni, classe 1981, raffinato musicista e cantautore indipendente che ci parla del suo nuovo disco “Dove sei”, parte seconda. L’album è uscito Il 15 ottobre scorso, un lavoro intenso e sperimentale che porta davvero qualcosa di nuovo e fresco nella musica italiana.
Dove sei pt. 2 è infatti il nuovo album di inediti del cantautore romano Lucio Leoni, parte conclusiva del doppio album inaugurato lo scorso maggio 2020 con la pubblicazione del primo capitolo. La parte seconda completa un percorso creativo e artistico che lo ha visto concepire un progetto musicale estremamente originale e nuovo, vario e un approccio sonoro frutto di molte ispirazioni: l’uso della parola, l’affabulazione, la teatralità, il contesto storico e il momento che stiamo vivendo. Un album sperimentale dove troviamo tutto, dalla parola alla poesia. Il brano “Nastro Magnetico” anticipa l’album, pt.2.
L’unione tra musica e narrazione nasce grazie alla preziosa collaborazione con i Mokadelic, punto di riferimento importante della composizione di “musica per cinema”, i quali hanno realizzato la musica per accompagnare la narrazione. L’idea si è poi fatta “cinema” – come ci racconta nell’intervista Lucio Leoni – grazie alla collaborazione con il Collettivo Zero che ne ha realizzato un cortometraggio, “stratificando i livelli” e “riscrivendo in parte il soggetto”. Frutto di un lavoro articolato e originalissimo.
Lucio, è uscito a maggio “Dove sei, pt.1” e a metà ottobre “Dove sei, pt.2”: è un album unico diviso in due parti, un disco apprezzato e con il consenso della critica. E’ un percorso costruito, voluto in questo modo?
L’idea era già nata così, è un percorso voluto; avevamo molto materiale in mano e ci siamo accorti che forse raccogliere tutto in un unico disco sarebbe stato eccessivo. La mia scrittura è piuttosto articolata, non ho certo il dono della sintesi! Per questo motivo, l’idea era di fare un disco diviso in due parti, lasciando molto spazio all’ascolto.
Dove sei pt.2 è anticipata dal brano Nastro Magnetico: un singolo molto poetico e raffinato con una scrittura importante e l’uso sapiente della parola ma anche delle immagini, con il video che lo accompagna. Citi spesso Alessandro Bergonzoni, non a caso, uno splendido affabulatore: il “dovunque e sempre” è un’estensione del concetto latino “qui e ora”?
“Rubo” la citazione proprio a Bergonzoni, lo ricordo a un festival della filosofia; questa è un’idea legata soprattutto alla figura dell’artista: il “bisogno di essere dovunque e sempre”, perché l’artista deve andare “oltre” il “qui e ora”, quindi diciamo che per il suo modo di vedere è proprio un’estensione assoluta che legava, e lega molto, con il percorso.
Sei molto attento all’uso della parola. Oggi quanto è importante partire o ripartire dalla parola?
Tornare al senso vero delle parole, è importante. Tornare e direi anche, partire; è anche un problema di educazione, di mondo culturale di riferimento all’interno del quale una persona cresce. E’ chiaro che la comunicazione che si snoda su livelli digitali – parlando dei social – si sta modificando; personalmente, sono anche interessato a come il linguaggio subisca trasformazioni. La nostra è una lingua talmente ricca che ci permette di fare un po’ di tutto, anche farci del “male” con le parole… Bisogna quindi stare attenti.
I Social sono rapidissimi oggi, prendiamo Instagram o Tik tok, due piattaforme per la generazione Z, consentono pochi secondi per vedere una storia, addirittura dai 15 ai 60 secondi per Tik Tok. Trovi si perda molto tra ascolto e scrittura? E tu che rapporto hai con i Social?
Sono “anziano” anagraficamente da questo punto di vista! Sono un analogico e quindi ai Social ci arrivo in ritardo e sono legato a forme e metodi comunicativi che ormai quasi non esistono più, per esempio compro ancora il giornale, adoro la carta. E’ un rapporto, quello con i Social, assolutamente curioso proprio per l’emergere di nuovi linguaggi, culture e sfumature.
Tornando all’album “Dove sei” pt.2, in questo disco ci sono 7 tracce rispetto alle 8 della prima parte, il disco precedente. Qual è il brano eliminato e perchè?
Tutto il lavoro di “Dove sei” è stato fatto in precedenza, molto prima che il virus arrivasse e ci fosse il lockdown, in un momento in cui nessuno di noi avrebbe mai potuto immaginare cosa sarebbe poi successo. Ed è molto interessante, a proposito delle parole, come molte di esse si modifichino in mano a seconda del contesto in cui le si appoggi; per cui alcune canzoni si sono inevitabilmente trasformate, hanno cambiato segno, senso, rispetto al contesto in cui sono uscite, altre “hanno perso completamente la loro battaglia con la storia”. E in questa seconda parte c’era un brano che si appoggiava su presupposti differenti, ragionava su prospettive diverse rispetto a un mondo che conoscevamo prima, mondo ormai modificato dal periodo che stiamo vivendo (vedremo come e quanto), quindi quel brano non aveva quasi più senso, non aveva più valore e non era più “contemporaneo”.
I singoli che hanno anticipato gli album, così come tutti i brani presenti, hanno una idea di base comune, un filo conduttore?
Assolutamente, per esempio il singolo che ha anticipato Dove sei pt.2 era “Mi dai dei soldi”, un brano che ho eseguito con l’attore Andrea Cosentino – un drammaturgo – e fa riferimento al mondo del teatro; un monologo che nasce per la scena. La seconda parte viene anticipata invece dal brano “Nastro magnetico” che fa riferimento al mondo del cinema, come dicevamo prima. C’è un parallelo di arti: ci guardiamo intorno e ci confrontiamo con il mondo dell’arte, soprattutto in un momento così difficile per la cultura. Dal punto di vista musicale, c’è una “differenza” che si legge nei due dischi: una prima parte con brani maggiormente energici ed esplosivi, una seconda parte che si muove su sonorità più morbide e “lente”; il singolo “Per sempre”, fa riferimento a quel tipo di atmosfere.
Come nasce l’idea di Nastro Magnetico? Anche il videclip che lo accompagna è molto interessante:
“Nastro Magnetico” è una sceneggiatura vera e propria da ascoltare: nasce per essere prima raccontata, poi musicata e infine filmata. Una trama contorta, un lavoro che può essere definito “complesso”, non lineare, una di quelle trame da film d’autore che non è detto abbiano ben chiaro dove andare a parare e che confonde la “linea del tempo”, fulcro nevralgico e tematico del disco. Dal punto di vista della scrittura, la sua nascita è casuale: mi sono infatti ritrovato a scrivere una sceneggiatura senza neanche accorgermene, senza quasi rendermene conto e a voler inserire l’idea di una sceneggiatura all’interno di una “forma-canzone”, ovviamente dilatandola perché è un brano che dura sette minuti. Da lì in poi è nata l’esigenza, la curiosità, la voglia di sperimentare il lavoro dei Mokadelic su un mondo di riferimento che è cinematografico ma privo di immagine, per cui il lavoro di sonorizzare una sceneggiatura scritta ed eventualmente “detta”, non realizzata su pellicola; infine, quello di far rileggere questa sceneggiatura suonata e sonorizzata dai Mokadelic a dei registi, in questo caso il Collettivo Zero e mettere finalmente su pellicola questo lavoro; un confronto su tre livelli di scrittura, quindi, provando a vedere cosa sarebbe successo lavorando “all’inverso”.
Il tuo è un lavoro originale e nuovo, un album sperimentale e “complesso” nel senso migliore del termine. A chi ti rivolgi, a un pubblico più intimo e intimista o ai grandi palchi? E soprattutto, chi ascolta per la prima volta il tuo album, pt1 e pt2, come arriva alla comprensione del testo? Questo accade con tutto ciò che è originale e non consueto. Insomma, un lavoro complesso ma nel senso ottimo del termine: raffinato, quale tu sei:
Effettivamente questo potrebbe essere uno dei miei grossi problemi, il non avere una chiara idea di un settore di mercato di riferimento. Capisco che il mio può essere visto come un lavoro “complesso”; cercare la comprensione effettiva di un’opera d’arte, in assoluto, è un lavoro successivo. Ci sono effettivamente dei gradi di “complessità”, perché la mia testa lavora in maniera “ingarbugliata” ma credo anche che la complessità debba tornare ad essere un valore. La pretesa della comprensione è già forse un passaggio successivo per chiunque di noi si ponga davanti a un’opera d’arte, un film o un quadro. Il primo punto è il flusso, chiamiamolo così: il lasciar fluire quello che accade nell’opera d’arte, attraverso la propria esperienza – attraverso la propria formazione culturale e non formazione culturale – e vedere se questa situazione “fa succedere qualcosa” all’interno del proprio animo. Se succede, c’è poi un passaggio successivo che può essere più analitico, più interessato effettivamente alla comprensione del testo piuttosto che all’ elaborazione musicale. Se non succede, si passa ad altro.
Hai un orario preferito per scrivere, c’è un’ora del giorno o della notte particolare che accende la creatività?
Non ho un orario preciso, sono piuttosto una persona che prende in continuazione appunti. Mi capita di perdere spesso il contatto con la realtà e segnarmi delle cose, degli appunti; quando gli appunti si trasformano in scrittura e questa diventa “organica”, avviene in qualsiasi momento ma necessariamente quando sono da solo. Non succede mai in condivisione di spazi, anche se in stanze separate: per scrivere devo restare solo.
Come sarebbe stata la quarantena senza il web e senza internet?
Effettivamente, non è tutto male quello che viene dal web. Senza, staremmo forse parlando in termini diversi delle nostre prospettive, delle tracce del dolore che abbiamo addosso (perché le abbiamo, molto forti), forse ancora non capiamo quanto tutto questo stia mutilando le emozioni; questa capacità che ha il web di farci sentire meno lontani, aiuta a sentire meno la solitudine.
Come vivi questo momento difficilissimo per la cultura, la musica, le arti? Cosa ti auguri?
Lo sto soffrendo così come tutti gli altri colleghi. Quello che credo e penso, se esiste ancora una classe di creativi, diciamo così e intellettuali in questo Paese, il loro compito ora – oltre a cercare di confrontarsi su una base politica per costruire una base comune con cui mettere in piedi situazioni di rispetto da parte delle Istituzioni nei nostri confronti – credo sia proprio quello di mettere in gioco le armi della creatività e dell’intelligenza performativa. Bisogna reinventarsi, occorre rimodularsi: non torneremo a vedere i concerti così come siamo abituati, a breve. Bisogna quindi riconsiderare le proporzioni della performance, reinventarla e ricostruirla: questo sarà compito nostro, insieme a chi avrà voglia di venire ad assistere alle nostre performance. Bisogna cominciare a immaginare “un modo nuovo”.
Foto in evidenza di Marta Coratella