Un anno folle, sarà ricordato così, un anno in cui in Italia le diseguaglianze sono aumentate e il coronavirus ha marcato ancora di più le distanze, colpendo anche e molto i giovani. Sono loro che oggi hanno minori possibilità di una ascesa sociale, di trovare il primo impiego, sottoposti invece a una bassa qualità del lavoro, sottopagato, sono i giovani che annaspano nella difficoltà di migliorare le proprie condizioni di vita. La fotografia scattata dal rapporto annuale dell’Istat 2020, è un lavoro lungo – quasi 300 pagine – consegnato a una stagione incerta, determinata in maniera eccezionale dal coronavirus. Uno spartiacque, il prima e il dopo di una situazione economica, quella italiana, che mostrava già segnali di rallentamento ma che è caduta con il lockdown in una condizione critica dalla quale si uscirà non prima del 2021.
I giovani di oggi stanno peggio dei propri genitori, è una frase che si sente dire, spesso. Ma non è un sentimento, è statistica. Tutte le generazioni nate fino alla fine degli anni ’60 salivano nelle classi sociali, in un movimento ascendente verso migliori posizioni lavorative e economiche. L’inversione di tendenza è arrivata con l’ultima generazione, e tra chi è nato tra il 1972 e il 1986 (la generazione X e i millenials) la quota di chi scende supera quella di chi sale. Un andamento praticamente senza precedenti nella storia degli ultimi cento anni. Dall’analisi dell’Istat emerge un elemento chiarissimo. L’Italia è un Paese rigido. Che vuol dire? Le condizioni di nascita, sociali e economiche, incidono tanto sulle opportunità di avanzare in una posizione migliore rispetto a quella di partenza. Insomma, capacità, merito, vengono dopo.
“Le possibilità di miglioramento delle posizioni sociali diminuiscono perché la stagnazione del sistema economico e i modelli organizzativi della Pubblica Amministrazione impediscono una sufficiente espansione delle posizioni più qualificate, determinando di fatto un downgrading delle collocazioni per le giovani generazioni”. L’Italia è un Paese in cui le diseguaglianze delle opportunità condizionano una generazione.
Assunzioni congelate, contratti a tempo determinato non rinnovati, lavoratori autonomi paralizzati dalla crisi covid: sono giovani. Questo dice l’Istat. La riduzione dell’occupazione si concentra tra i giovani con meno di 35 anni. E le prospettive? Il 12% delle imprese è orientato, dopo il blocco dei licenziamenti e la fine della cassa integrazione, a ridurre l’organico. I giovani, ancora, sono più a rischio.
L’Italia non è un Paese per giovani allora? Di certo la marea della pandemia dal punto di vista socialee economico riflette conseguenze pesanti. Già prima le condizioni non erano delle migliori, anche in quell’ottica delle opportunità. Tanto è vero che i laureati in fuga verso l’estero sono triplicati in questi anni, si tratta di giovani specializzati per la maggioranza uomini, provenienti dal Nord Italia, lauretati in economia, nelle discipline scientifiche, in ingegneria. Una mappa che fa capire come la fuga dei cervelli, un po’ brutalmente chiamata dai mess media, sia non solo un fenomeno in crescita, ma con una storia precisa. Come spiega (bene) l’analisi condotta da Tortuga, il think thank italiano di studenti, professori e esperti di economia, fino al 2009, in Italia l’uscita verso migliori opportunità era fisiologica. Una migrazione normale, diciamola così, legata a offerte di vantaggiosi ingaggi e conseguenti salari rispetto all’Italia. Dopo il 2009, però, l’anno nero della crisi che ha mutato i connotati delle economie mondiali, la curva della migrazione all’estero, la spinta quantitativa dei cervelli in fuga si è legata strettamente all’andamento della disoccupazione. Chissà come sarà ora dopo il covid, con la Brexit, in questa nuova geopolitica europea e internazionale, quando anche andarsene sembra più complicato.