Camilla Filippi, attrice di cinema, serie tv, artista visiva, scrittrice con il suo libro La sorella sbagliata, in libreria per Harper Collins, uscito il 3 settembre scorso promosso anche da Ambra sul suo profilo Instagram. Ma chi è la sorella sbagliata? Lo chiediamo a Camilla Filippi, attrice della fiction tv per Rai Uno “Tutto può succedere” 1 e 2, in cui interpreta un personaggio molto amato, Cristina la mamma di un bambino autistico. Dal suo debutto nel 1998 con la miniserie tv “Costanza”, ha sempre lavorato al cinema e nelle serie televisive in particolare. Tra i tanti lavori ricordiamo “Le ragazze di San Frediano”, Rai Uno, “La scelta di Laura, “Tutti pazzi per amore 2”, “In fondo al bosco”, “Il processo”. Per “La sorella sbagliata”, Camilla Filippi ha attinto alla sua storia familiare, debuttando nella narrativa con il suo romanzo profondo ambientato nell’estate del 1978, in cui racconta di due giovani sorelle, del loro rapporto, di un viaggio che intraprendono in un complesso e personale rapporto di odio apparente e di amore. Si scopriranno alla fine di questo viaggio. I temi affrontati molti: emozionali, personali, la disabilità, la “diversità”, la percezione del prossimo e un concetto da esplorare con coraggio “gli altri siamo noi”.
Come nascono il tuo desiderio e l’esigenza di scrivere?
Ho sempre avuto il bisogno di esprimermi e non mi limito rispetto alla possibilità di come farlo, quindi sto in ascolto di me stessa. Scrivo da tanto tempo ma non mi ero mai sentita pronta, avevo la storia in testa e ad un certo punto mi sono detta che il momento forse era arrivato in cui potessi rischiare ed espormi; avevo questa storia da narrare e ho pensato che il modo migliore per raccontarla fosse partire da un libro.
Il romanzo è un viaggio tra due sorelle e tocca temi importanti, quali la disabilità e la “diversità”. Quale sorella è sbagliata e perchè?
Intanto – posso dire – alla fine del viaggio ci renderemo conto che nessuna è sbagliata e tutte e due sono sbagliate. Nel senso che ognuno di noi, a volte, è sbagliato perché inadatto a una situazione. Sono due sorelle, una soffre di una malattia, è spastica ed ha un problema solo fisico, non è intellettualmente inferiore; il mondo la percepisce come “diversa” ma lei è assolutamente normale, vive la sua normalità. Anzi, è più intelligente della media delle persone. Ho scelto di fare un viaggio e ambientarlo nel libro perché nel viaggio è più facile mettersi in discussione invece all’interno di una casa o delle proprie abitudini è molto difficile rompere dei meccanismi.
La disabilità è negli occhi di chi guarda? Quanti pregiudizi, ipocrisie?
La disabilità è solo negli occhi di chi guarda. E quindi questo diventa una visione appannata senza capire, comprendere, le potenzialità che ci possono essere e ci sono sempre e comunque dietro una “diversità”. Questo accade sempre. Il diverso non è “la persona” ma è sempre un “concetto”, figlio di chi guarda.
Non pensiamo mai abbastanza che “gli altri siamo noi”, siamo tutti sotto lo stesso cielo: un messaggio che forse vuoi lanciare.
Diciamo subito che il viaggio è tragicomico, niente è raccontato con pietismo, cosa che mi urta i nervi e dal quale ho cercato di stare totalmente lontana. Quello che mi interessava era dare la possibilità agli altri di guardare il mondo con occhi diversi, vedere che ci sono altri punti di vista, cosa per me assolutamente normale perché mi è stata insegnata nella vita. Il mio stesso lavoro di attrice è figlio del guardare i personaggi con occhi che non sono miei e quindi il mondo con occhi non miei; perché quando si interpreta un personaggio non siamo noi ma dobbiamo imparare a guardare tutto con gli occhi di “quel” personaggio; ho quindi un allenamento a questo. Percepire come “diversi”, dicevamo. Penso che nessuno nasca “imparato” – come dicono a Roma – ed è normale essere impreparati rispetto alla vita, a qualcosa che non si conosce. Quello non è un problema, è normale. Quello che non è normale, invece, è non cercare – nel momento in cui ti rendi conto di essere impreparato – di capire perché sei impreparato e comprendere quindi un altro punto di vista. Questo è totalmente sbagliato, a mio avviso.
Il concetto che hai espresso è molto importante e profondo. Tornando al libro e alle due sorelle, cercheranno di comprendersi e di entrare in empatia? Inoltre, c’è un gruppo che si unisce a loro: una cane paraplegico, un avvocato donna transessuale e un amico con il “pallino” dell’India, senza esserci mai stato. Come interagiscono con loro due, i personaggi?
Le sorelle, durante il viaggio, avranno modo di comprendere meglio le motivazioni l’una dell’altra, è vero anche che comprendere non significa cambiare realmente le cose perché nel momento in cui capisci una cosa, ci vuole molto tempo prima che tu possa cambiare realmente dei meccanismi. Però già comprendere qualcosa, è già – a mio avviso – un buon passo. Tutti i personaggi si uniscono per fare questo viaggio, casualmente. I personaggi del romanzo nella percezione degli altri sono “diversi”, questo il filo conduttore. Essendo loro percepiti “diversi” dagli altri, sono loro stessi invece in accoglienza degli altri. Perché è un paradosso. Si uniscono per affetto alle sorelle perché capiscono di essere visti, guardati, come viene “vista” Giovanna, la sorella con disabilità. Diventano una sorta di famiglia senza dirselo.
Secondo la tua esperienza e sensibilità, ritieni che la disabilità vada spiegata maggiormente alle persone e anche a scuola? Occorre maggiore informazione, raccontata nella sua normalità?
Certamente sì, va raccontata, spiegata, vanno preparati i bambini soprattutto. Non bisogna voltare la testa da un’altra parte, va tutto spiegato, bisogna rispondere alle domande dei bambini, chiedere, informare. Più una persona è consapevole delle cose, delle situazioni, e meno questi temi possono spaventare o creare una difficoltà di comunicazione anche con l’altro. Certamente abbiamo fatto passi da gigante nella scuola a proposito di “diversità” da spiegare ma spesso c’è difficoltà di comunicazione. Per esempio, ho interpretato un personaggio, tra i protagonisti, in “Tutto può succedere” per Rai Uno, in cui ero la mamma di un bambino autistico. Ho parlato molto e ho approfondito con l’aiuto di medici, specialisti che si occupano di ragazzi autistici, inoltre ho conosciuto il mondo delle associazioni: molti di loro si recano a scuola, all’interno delle classi, per spiegare ai ragazzi e ragazzini che cosa sia l’autismo. L’informazione e la conoscenza sono fondamentali. Informando i compagni di classe, gli stessi alunni possono interagire in modo più profondo con i ragazzi autistici. L’informazione offre più strumenti a chi deve interagire.
Si parla molto di inclusione scolastica, mai come in questo periodo.
Non c’è una grande inclusione. Poche volte c’è un’inclusione fuori dalla scuola, con i compagni, questo anche perché le mamme probabilmente hanno timore spesso comprensibile, paura di tenere un bambino con disabilità, prendendosi una responsabilità non sentendosi magari in grado di farlo. Se la disabilità fosse spiegata meglio, se si avessero maggiori informazioni, forse la mamma in questione avrebbe gli strumenti necessari per occuparsi di un bambino non suo.
Ritieni che con le difficoltà date dalle normative anti-Covid, il distanziamento sociale, i banchi singoli, le colazioni “ingessate” e una preoccupazione reale a contenere il virus nell’ambiente scolastico, possano aumentare le difficoltà legate all’inclusione? Si è tornati anche a parlare di dare piena attuazione alla Legge del “dopo di noi”.
Certamente. Per le normative e il distanziamento, è difficile la comprensione per un bambino normodotato, pensiamo a un bambino con più difficoltà nel relazionarsi con il mondo: è decisamente spaesato. L’aspetto più drammatico della disabilità è quando poi i bambini diventano adulti. Un mondo lasciato al volontariato, alle associazioni, al buon cuore del prossimo. Quando i bambini con disabilità diventano adulti, la società non ha reti per sostenerli, ne ha veramente poche. Troviamo genitori anziani che si occupano di figli con disabilità ed è davvero tutto molto abbandonato; il tutto viene lasciato al volontariato, alle associazioni che si occupano di disabilità e di sostenere le famiglie. Progetti volti all’inclusione sociale e al sostegno delle famiglie, per dare sollievo ai genitori che vivono l’esperienza di un familiare con disabilità.
Sei attrice e artista visiva. Nel 2015 sei stata invitata dalla casa di moda Gucci per partecipare al progetto #GucciGram, museo virtuale su Instagram. Vorrei chiederti un parere su quanto è successo alla modella Armine Harutyunyan, indossatrice per Gucci e oggetto di insulti e body shaming (derisione del corpo) in rete, perché “non corrispondente” ai consueti canoni di bellezza.
Quando sei percepito “diverso” e in più ce l’hai fatta, hai successo, stai “sulle scatole”. Una volta c’era imbarazzo nel mostrare la propria ignoranza, oggi non ci sono più imbarazzi né filtri, l’ignoranza è completamente sdoganata, in particolare sui social. Facebook e Instagram possono essere un mezzo meraviglioso ma anche dannato: non per forza si deve esprimere la propria opinione, non richiesta.
Hai un rapporto diretto con i social? Affronti i commenti aggressivi?
Molto, rispondo direttamente a opinioni, considerazioni aggressive, commenti e cerco di rispondere nel tentativo di far capire qualcosa. Infatti, quando rispondo, desidero far comprendere alcune cose a chi mi segue: sono una persona molto forte, prima che qualcuno mi smuova con commenti aggressivi, ce ne vuole. Se tutto questo capita a una persona, una amica o conoscente, che non ha una struttura altrettanto forte nel leggere critiche o commenti poco piacevoli questa persona rischia di andare in crisi profonda. Il tentativo – sul mio profilo – è quello di educare a stare sui social, a un modo corretto di usarli.
Tornando al tuo libro “La sorella sbagliata”, volevo chiederti quanto hai impiegato per la stesura e se hai un orario della giornata in cui preferisci scrivere.
Ho scritto la scaletta in un anno e mezzo, smontando e rimontando: quando la struttura è stata solida, ho impiegato un anno circa a scriverlo. L’ho scritto durante l’emergenza Covid, in quarantena, in casa, di notte con l’insonnia. Scrivevo in orari notturni.
Cosa significa recitare per te? Cosa prendi e cosa dai?
Premetto che sono fortunata, facendo un lavoro artistico – recitare, scrivere, arte visiva e foto – ho la fortuna di dare un posto al dolore che ho provato nella vita o che mi trovo ad affrontare, mi sento quindi una privilegiata per questo. Sapere che il dolore provato è stato comunque utile a qualcosa è un alleggerimento. Per quanto riguarda i miei personaggi, recitare è una cosa che faccio da quando sono piccola, non riesco nemmeno a valutare cosa mi dia in quanto per me è cosa naturale, ho sempre recitato. Mi piace non sedermi, provare a cambiare sempre i miei personaggi in maniera profonda.
Progetti prossimi, film, libri? Hai in cantiere un secondo libro?
Sì, ho già in mente un altro libro, inizierò la scaletta alla fine di questa promozione. Ho finito invece di girare un film, “La stanza”, con Guido Caprino e Edoardo Pesce per la regia di Stefano Ludovisi e sono in attesa dell’uscita della seconda stagione della serie tv “Il Silenzio dell’acqua”, Canale 5.
Crisi del teatro e del cinema, una tua riflessione.
Le sale dei cinema sono vuote, non entra nessuno. Non riesco a capire la scelta di fare alcune cose e di non farne altre, cinema e teatro sono in grande sofferenza. Ci vorrebbe qualche risposta in più: il nostro lavoro non è fatto solo di attori famosi ma di tanta gente dietro le quinte, le maestranze lavorative, le comparse, intere famiglie che ruotano e lavorano nel mondo dello spettacolo. Il mio pensiero è a loro. Mi auguro una maggiore attenzione verso scuola e cultura: producono esseri umani con uno spessore, lo spessore cambia l’economia di un Paese.