a cura di Alberto Cuccuru
Il 2024 è dietro l’angolo, ormai. Eppure ancora siamo in tempo per ricordare. Lo faccio ricorrendo ad uno stratagemma, giocando su due numeri, il 60 e il 10.
Due numeri, il 60 e il 10, che hanno rilevanza, attualità ed importanza in questo 2023.
Vi dico, subito, il motivo.
60 come gli anni che sono trascorsi dalla morte di John Fitzgerald Kennedy, il 22 novembre del 1963.
10 come gli anni che sono passati dalla morte di Nelson Mandela, il 5 dicembre 2013.
Su queste due figure, del perché hanno lasciato traccia, mi vorrei soffermare con voi.
Agli inizi degli anni Sessanta, in un America lacerata da ottusi e dalla violenza, laddove nel sud del Paese i “neri” dovevano stare “al loro posto”, rispettare le distanze, in questa parte di mondo sale alla ribalta della politica americana John Fitzgerald Kennedy, JFK, che diventa, il 20 gennaio 1961, il 35° Presidente degli Stati Uniti d’ America.
Il giorno del suo solenne giuramento dice di voler cambiare la società americana anche se, purtroppo, dopo mille giorni scatta per lui una trappola mortale. È il 1963.
Kennedy cercò da subito di imporre l’integrazione razziale soprattutto negli Stati del sud, ancora razzisti, chiamando a sostegno anche la moglie dell’allora carcerato Martin Luther King. Inoltre, in piena guerra fredda, si disse favorevole al disarmo nucleare e ad una politica distensiva nei confronti del blocco sovietico.
Tuttavia, durante il primo incontro con Nikita Kruscev, in cui affrontarono la questione di Berlino Ovest, registrò un primo fallimento. Kennedy considerava Berlino parte della Germania Federale, mentre i tedeschi la volevano libera.
La risposta sovietica si concretizzò con l’innalzamento di un muro che separava in due la città, e rendeva impossibili le fughe: il muro di Berlino.
Il confronto più drammatico tra le due potenze ebbe per teatro Cuba. Kennedy, non appena presidente, cercò subito di soffocare il regime di Fidel Castro, sia boicottandolo economicamente, sia appoggiando gli esuli anticastristi che tentarono una spedizione armata nell’isola.
Ci fu così il celebre sbarco nella Baia dei Porci (Bahìa de Cochinos), una stretta insenatura nella parte centrale dell’isola di Cuba: l’avventuroso tentativo di invasione effettuato il 17 aprile 1961 da 1.511 esuli cubani — la Brigata 2506 — emigrati negli Stati Uniti, finanziati e appoggiati dalla CIA, che si risolse in un insuccesso completo.
Le navi americane furono attaccate subito dagli aerei cubani e due furono affondate. Il 18 aprile gli assalitori si resero conto che senza cibo né acqua, senza comunicazioni fra loro, senza munizioni e senza carburante per i carri armati e i camion che avevano sbarcato e senza alcun appoggio dei locali, erano in una situazione insostenibile e fu ordinato il ritiro
In questa tensione s’inserì l’Unione sovietica che offrì ai cubani assistenza economica e militare, e inoltre iniziò l’installazione di alcune basi di lancio per missili nucleari. Quest’ultime vennero scoperto da aerei-spia (gli U-2) nell’ottobre del 1962, e Kennedy in un accorato appello televisivo ne annunciò la scoperta e proclamò che ogni attacco di missili nucleari proveniente da Cuba sarebbe stato considerato come un attacco portato dall’Unione Sovietica e avrebbe ricevuto una risposta conseguente. Ordinò, inoltre, un blocco navale (anche se in televisione utilizzò il termine più mite di quarantena) attorno a Cuba per impedire ai sovietici di raggiungere l’isola.
Per tredici giorni (16-29 ottobre) il mondo fu vicino ad un nuovo conflitto generale, la gente iniziò a parlare e preoccuparsi apertamente di un’apocalisse nucleare, ed esercitazioni per una tale emergenza si tennero quasi quotidianamente in molte città. I responsabili dello stato maggiore americano insistettero perché il riluttante presidente ordinasse un’immediata azione militare per eliminare le rampe missilistiche prima che queste diventassero operative. Irato contro i sostenitori della tesi dell’attacco aereo, e in particolar modo con i militari, Kennedy commentò al suo assistente personale Kenny O’Donnell: «Questi berretti con le greche hanno un grande vantaggio: se diamo loro ascolto, e facciamo quello che loro vogliono che si faccia, dopo nessuno di noi sarà vivo per poter loro dire che avevano torto”
La distensione che andava creandosi ebbe il suo apice nella firma del trattato per la messa al bando degli esperimenti nucleari nell’atmosfera, e ci fu anche l’installazione di una linea diretta di telescriventi, detta Linea Rossa, fra la Casa Bianca e il Cremlino, che serviva a scongiurare il pericolo di una guerra per errore. «Finché ci puntiamo addosso i missili è bene che un telefono possa squillare», disse l’ex direttore della CIA. Nikita Kruscev accentuò il suo tono pacifista nei suoi interventi, e anche la competizione economica: la vittoria sarebbe andata al paese capace di assicurare al popolo il più alto grado di benessere e di giustizia sociale. Ma questo eccesso di ottimismo non corrispose alla realtà e un anno dopo fu estromesso da tutte le sue cariche.
Ma questa è storia, una parte almeno.
A distanza di anni, appunto sessanta, è interessante capire perché la figura di JFK sia sempre così attuale, ricordata, presente.
Proviamo a capire il perché ed a trovare gli elementi che ancora legano il Presidente Kennedy alla memoria collettiva, alla nostra memoria, oltre il normale e universale ruolo che la storia gli attribuisce.
Facciamo un passo indietro.
Richard Milhous Nixon, un fiero esponente repubblicano, di umili origini, al momento della proclamazione a Presidente nel 1968, ha già un passato politico lungo alle spalle. Ha ricoperto con Eisenhower tra il 1953 il 1961 la carica di vicepresidente. Nel 1960 si trova a concorrere come candidato repubblicano contro “l’uomo nuovo” John Fitzgerald Kennedy: brillante rampollo di una famiglia borghese.
Il 26 settembre 1960 queste due figure, Richard Milhous Nixon e appunto JFK, entrano nella storia: va in onda il primo dibattito televisivo tra due candidati alla Presidenza degli Stati Uniti.
Quello che oggi è ormai comune, il duello televisivo in ambito elettorale, a qualsiasi livello, trova il suo prodromo, la sua genesi con la corsa alle elezioni Presidenziali del 1960/61.
L’incontro sarà caratterizzato da alcune precise scelte comunicative.
Senza dubbio quel giorno la comunicazione politica diventa ancora più diretta: i candidati, nell’insieme dei loro volti e delle loro parole, entrano nelle case degli americani.
Fu decisivo quello scontro; Nixon pur essendo in vantaggio nei sondaggi, perse le elezioni con una grande rimonta di Kennedy.
Per la prima volta c’è un terzo protagonista: la televisione e lo scontro elettorale assume una importanza mediatica senza precedenti che segna un modo nuovo di fare politica.
Una grande massa di elettori americani partecipa allo scontro assistendo al confronto televisivo, il primo nella storia delle competizioni elettorali.
Non più alla radio come era avvenuto fino a quel momento; subentrano nuovi aspetti: l’estetica, la capacità gestuale di accompagnare le parole, la maniera di proporsi in modo nuovo.
Ancora.
Quando il 2 gennaio del 1960, JFK annuncia la sua candidatura alla Presidenza, è Senatore del Partito Democratico dal 1952 e appartiene ad una delle famiglie più ricche e potenti degli Usa, ma le sue probabilità di successo erano scarse: a 42 anni, era considerato troppo giovane per aspirare alla guida del Paese; e, poi, è cattolico e gli Usa, a maggioranza protestante, non avevano mai avuto un Presidente cattolico.
Sbaraglia i concorrenti alle Primarie democratiche.
Quello che pronuncia alla convention che lo vede proclamato antagonista del rivale repubblicano rimane famoso come il discorso delle frontiere.
Val la pena ricordarlo: “Noi oggi ci troviamo alle soglie di una nuova frontiera, la frontiere degli anni 60. La nuova frontiera di cui parlo non è fatta di promesse, è fatta di sfide, sintetizza ciò che al popolo americano intendo chiedergli. Al di là di queste fornite si estendono le aree inesplorate della scienza e dello spazio, i problemi irrisolti della guerra e della pace, le terre inconquistate, dell’ignoranza e del pregiudizio. delle povertà e degli sprechi.
Era un uomo ricco, ma riuscì ad avere il consenso tra i ceti sociali più popolari.
Le grandi città sono con Kennedy, mentre l’America rurale vota Nixon.
Con un margine strettissimo, poco più di 100.000 voti su 70 milioni di votanti, JFK rompe il sortilegio che lo volevano perdente e diventa il più giovane Presidente degli Usa (e il primo cattolico).
“Americani, non chiedetemi cosa il Vostro paese potrà fare per voi, ma chiedetevi cosa voi potete fare per il Vostro paese” e ancora “I cittadini di tutto il mondo, non chiedetevi cosa l’America fare per voi, ma cosa insieme possiamo fare per la libertà dell’uomo”.
JFK rende l’uomo politico più vicino alla gente, non è più distante.
Talmente vicino che la famiglia fa il suo ingresso alla Casa Bianca, iniziano per la prima volta a circolare foto di momenti di vissuto quotidiano, l’America si avvicina alle stanze del “potere”.
JFK accorcia le distanze.
Non solo. Cambia il ruolo della First Lady, con Jaqueline, diventa globalizzata, cosmopolita, colta, che affianca il marito Presidente sui grandi temi, divenendo, a volte, il suo portavoce, assumendo, insomma, un ruolo inedito.
Certo, lo si ricorda anche per qualche ombra; la guerra in Vietnam, la spedizione a Cuba (sebbene già innescata prima del suo arrivo alla Presidenza).
Purtroppo Kennedy non può cogliere ciò che stava seminando; muore prestissimo, e con sua moglie Jaqueline, è considerato una icona del Novecento, ancora amato e rimpianto dalla maggioranza degli americani, per il clima che la sua presenza aveva imposto, perché aveva fatto sognare l’America intera.
E allora quel 22 novembre del 1963, sessanti anni fa, a Dallas, rimane molto di più di una semplice data.
Cambiamo numero, passiamo al 10 e, soprattutto, ricorrenza.
A 95 anni, il 5 dicembre del 2013, si spegneva Mandela, detto anche Madiba (dal nome del clan di origine), capo della lotta contro l’apartheid e il primo Presidente nero del Sudafrica (dal 1994 al 1999), peraltro eletto nelle prime elezioni pienamente rappresentative e multirazziali tenutesi nel paese.
Ha anche ricoperto la carica di presidente dell’African National Congress, partito di orientamento socialdemocratico al governo in Sudafrica dal 1994. Nel 1961 era stato tra i fondatori dell’ala militare dell’Anc, chiamata Umkhonto we Sizwe (“la lancia della nazione”).
Arrestato la prima volta nel 1962 con l’accusa di sabotaggio e complotto per rovesciare il governo, Mandela fu condannato all’ergastolo nel 1964 e liberato nel 1990 dal presidente De Klerk. Anche dopo una campagna internazionale a favore della sua liberazione.
Durante i 27 anni di prigionia scontati nei penitenziari di Robben Island, Pollsmoor e Victor Vester, è diventato il simbolo della lotta contro l’apartheid, la segregazione razziale perseguita dal governo bianco sudafricano. Negli anni del carcere per almeno tre volte ha declinato l’offerta di essere rimesso in libertà ad alcune condizioni. Successivamente, da presidente, si è speso a favore della riconciliazione nazionale tra neri e afrikaner.
Nel 1993 Mandela ha vinto il premio Nobel per la pace.
Lo ricordiamo per quell’essere rivoluzionario prima e uomo di un governo di riconciliazione e pacificazione poi, simbolo dell’uguaglianza e dell’antirazzismo. Il Nelson Mandela International Day è una giornata di festa internazionale, istituita dall’ONU, celebrata il giorno del suo compleanno, il 18 luglio.
Nella sua vita è stato tante cose: un avvocato, che si batteva per i diritti civili, un leader politico, che ha scelto la lotta, anche cruenta, contro il Governo del suo Paese, un carcerato che è stato 27 anni in una prigione; dal carcere, un grande personalità morale e, dopo l’affermazione del principio della pari dignità tra tutti i cittadini di tutte le etnie, il primo Presidente del Sudafrica.
Quando il regime di Pretoria nel 1960 elimina 66 militanti dell’Africa National Congress, Mandela scampa alla strage e riesce a fuggire e dà vita ad una frangia militarista decisa a rovesciare il regime e a difendere i propri diritti con le armi; viene arrestato nel 1963 e dopo un procedimento durato nove mesi, è condannato all’ergastolo con l’accusa di alto tradimento e ridotto in segregazione.
Ecco con quali parole teneva viva la speranza di cambiamento:
“A differenza di altri bianchi in Africa, quelli di qui, sono a casa loro, nella loro Patria, vogliamo che vivano con noi, che dividano il potere con noi, ma devono capire che la nostra ambizione non è quella di sposare una donna bianca o do nuotare in una piscina per bianchi, il problema è l’uguaglianza politica”.
Il 1990 fu l’anno della svolta; in seguito a forti pressioni internazionali e venendo a mancare l’appoggio degli Usa, il regime di Pretoria decise di liberare Nelson Mandela.
Se molte speranze aperte dalla fine della guerra fredda sono andate deluse, non così è successo in Sudafrica, un tassello di non poco conto, nel mosaico del cosiddetto nuovo ordine mondiale, è stato messo. Di quanto sia importante per la comunità internazionale la salvaguardia della stabilità sociale in Sudafrica, è testimoniato dalla attenzione che il Comitato dei Premio Nobel per la Pace ha voluto accordare, per tre volte, ai protagonisti della lotta di liberazione dei neri sudafricani: Albert John Luthuli, Presidente dell’Africa National Congress fu insignito del Premio Nobel nel 1961; Desmon Tutu, Arcivescovo della Chiesa Anglicana, nel 1984; Nelson Mandela e Frederik Willem de Klerk, uomini simbolo dell’addio e della riconciliazione, son stati premiati insieme nel 1993.
Certo anche per lui, qualche ombra; quando lascia la Presidenza del Sudafrica nel 1999, viene criticato per le mancate riforme sociali e per aver sottovalutato il problema del dilagare dell’AIDS nel paese. Muore il 5 dicembre 2013. Dieci anni fa.
Lo vogliamo ricordare, in conclusione, con un altro suo messaggio, uno dei meno noti, rivolto a tutti i sudafricani di ogni colore cultura e religione ma, soprattutto, alle nuove generazioni:
“Il futuro del Sudafrica è nelle mani di chi non ha mai conosciuto le leggi di segregazione razziale”.
CHI È ALBERTO CUCCURU
Alberto Cuccuru è Avvocato penalista, Cassazionista. Già assegnista di ricerca presso la Facoltà di Giurisprudenza della LUISS. Componente della Commissione Formazione – Ordine Avvocati di Tivoli. Autore di diverse pubblicazioni in ambito giuridico. È Assessore alle Finanze nel Comune di Guidonia Montecelio.