«Quante donne avrebbero meritato un posto nella Storia umana e sono sparite da essa perché un mondo di maschi ha deciso di non concedere loro pari dignità? Un vero genocidio». Queste le parole di Donato Carrisi che Ilaria Tuti inserisce tra le note del suo Fiore di Roccia, ultima sua opera che si distacca dal filone Battaglia (Fiori sopra l’inferno e Ninfa Dormiente) per raccontarci e restituirci un pezzo di storia tutto italiano, quello delle portatrici carniche.
Durante la prima guerra mondiale le donne della Carnia, affrontavano il freddo delle montagne e il fuoco nemico per portare assistenza al fronte con le gerle cariche di cibo e munizioni. Eroine dimenticate, pezzo di storia sepolto che Ilaria Tuti porta alla luce con un grande lavoro storiografico e la capacità del romanziere. Fiore di Roccia racconta la vicenda un gruppo di donne che risponde al grido d’aiuto dei soldati italiani, spesso giovanissimi, chiamati alle armi e che nelle portatrici trovarono conforto non solo per i beni che esse trasportavano ma per il sostegno morale e spirituale.
La protagonista è Agata Primus, gerla in spalla e scarpetz ai piedi (tipica calzatura friulana) ogni giorno affronta le montagne, la neve e il terreno impervio. È una donna forte, avvezza alla fatica e al sacrificio, pratica e di gran cuore e quando il parroco del suo paesino fa un accorato appello per spronare quel poco di popolazione rimasta in forze a rendersi utile per gli uomini al fronte, Agata capisce che quella è la sua missione.
“Quelli che riecheggiano lassù, fra le cime, non sono tuoni. Il fragore delle bombe austriache scuote anche i villaggi, mille metri più giù. Restiamo soltanto noi donne, ed è a noi che il comando militare italiano chiede aiuto: alle nostre schiene, alle nostre gambe, alla nostra conoscenza di quelle vette e dei segreti per risalirle. Dobbiamo andare, altrimenti quei poveri ragazzi moriranno anche di fame.”
Con lei altre donne, giovani, anziane, madri ogni giorno come stelle alpine, fiori di roccia appunto, si aggrappano agli speroni, spingendosi fino allo stremo delle loro forze.
“Ma lassù hanno bisogno di me, di noi, e noi rispondiamo alla chiamata. Alcune sono ancora bambine, altre già anziane, ma insieme, ogni mattina, corriamo ai magazzini militari a valle. Riempiamo le nostre gerle fino a farle traboccare di viveri, medicinali, munizioni, e ci avviamo lungo gli antichi sentieri della fienagione.”
Ilaria Tuti nel raccontare queste traversate incanta con le descrizioni di una natura che continua inarrestata a vivere i suoi cicli nonostante i rumori delle bombe e le urla dei morti. Ogni roccia, ogni declino prende vita e ne avvertiamo la consistenza sotto i piedi, mentre le cinghie delle gerle ci segnano le spalle. Le portatrici arrivate al fronte toccano con mano la guerra, tra sangue e mutilazioni sono le prime donne a constatare e a vivere un dramma che si sarebbe perpetuato indipendentemente dall’esito della battaglia e che nessuna medaglia o menzione avrebbe cancellato.
“Ma oggi ho incontrato il nemico. Per la prima volta, ho visto la guerra attraverso gli occhi di un diavolo bianco. E ora so che niente può più essere come prima.”
La storia realmente accaduta e i personaggi di finzione si mischiano perfettamente, gli avvenimenti bellici prendono vita nelle gesta di queste donne e nel suono dei loro canti che squarciano i silenzi e sfidano il fuoco nemico. Anche tra le portatrici ci saranno perdite, pagine toccanti intrise di orgoglio e dolore.
Un libro che è un omaggio alla forza delle donne, alla capacità di non arrendersi, al senso di comunità che alberga in ogni essere umano e alla necessità di sentirsi utili mentre c’è chi rischia per noi. Ilaria Tuti con grande maestria e tantissima emozione riporta in vita la resistenza femminile, parte di Storia che merita d’esser conosciuta.