La riapertura nelle fasce gialle accende i riflettori sulle conseguenze della pandemia tra gli operatori della cultura che si ritrovano senza certezze. La risposta? Potrebbe essere nel Recovery Plan. Ne parliamo con Rosanna Carrieri di “Mi Riconosci”, movimento impegnato in prima linea nella difesa dei diritti dei lavoratori del settore.
Partiamo da una breve presentazione dell’attività svolta da “Mi riconosci, sono un professionista dei beni culturali”. Da dove nasce l’idea di mettere in piedi questo movimento e perché?
Mi Riconosci è nata alla fine del 2015 da un gruppo di studenti/studentesse e neo-laureati/e, come campagna per il riconoscimento e l’accesso alle professioni dei beni culturali. Con la legge 110/2014 è emersa l’esigenza di avviare una vertenza riguardante i profili professionali che la legge doveva definire. Da allora Mi Riconosci non si è fermata, ha proseguito le sue attività estendendo il campo di analisi e, quindi, di azione all’intero settore lavorativo dei beni culturali. Oggi ha assunto la forma di collettivo, attivo sia sui territori e nelle regioni, sia a livello nazionale. La nostra storia è raccontata anche in una apposita sezione del sito.
I professionisti in questo settore hanno storicamente dovuto mettere in campo battaglie di dignità, anche dal punto di vista economico. Secondo il vostro movimento a cosa è dovuto?
Purtroppo, le scelte che la politica ha fatto nel corso degli ultimi decenni hanno fortemente inficiato sulla dignità lavorativa. Individuiamo un punto cruciale nella legge Ronchey del 1993 che, nei fatti, ha aperto alle esternalizzazioni. Questo ha sicuramente portato alla situazione che attualmente viviamo, fatta di incertezza e precarietà.
Se volessimo dare insieme qualche numero, quanti sono gli operatori impiegati in questo settore e con quali tipologie di contratto?
L’inchiesta che abbiamo condotto nel 2019 mirava proprio a ricostruire un quadro dettagliato della situazione lavorativa nell’ambito dei beni culturali, guardando specificatamente ai contratti e alle condizioni di lavoro. Le tipologie contrattuali – ma non solo – sono tante ed eterogenee: dal multiservizi, ai contratti a chiamata o a progetto; o ancora, stage, tirocini e straordinari non retribuiti; le prestazioni occasionali, le partite iva. Il quadro è ampio e non è sempre facile mapparlo in modo dettagliato, ci arrivano quotidianamente testimonianze di ogni tipo. Un dato è certo, dalla nostra inchiesta è emerso che circa l’80% dei lavoratori ha paghe misere.
L’Italia è uno dei paesi con il più importante patrimonio artistico mondiale, cosa manca per poter davvero dire di “vivere di cultura”?
Dovremmo parlare di quello che la cultura produce, ossia ricchezza sociale e culturale, più che di ricchezza economica. L’Italia non può vivere di cultura, detto così è un falso mito. L’investimento nel patrimonio culturale e nei suoi istituti è un costo necessario da sostenere perché si tratta di un servizio pubblico essenziale. Dobbiamo riconoscerlo e ricordarlo costantemente per cogliere il ruolo reale che la cultura può avere per il nostro paese: la questione centrale è proprio il circolo virtuoso che può innescare per generare benessere diffuso.
Parliamo anche della situazione attuale: la pandemia quanto ha inciso sul vostro settore e cosa si deve mettere in campo nei prossimi mesi per ripartire?
Durante il primo lockdown abbiamo avviato un’inchiesta per mappare ciò che stava avvenendo nel settore culturale. Già in quella occasione i dati erano allarmanti, con i mesi la situazione è andata peggiorando: c’è tanta incertezza tra i lavoratori e le lavoratrici, tra i neo-laureati e le neo-laureate che si stanno affacciando al mondo del lavoro, e in alcuni casi anche della rassegnazione. Ci sono strutture ormai chiuse da un anno, zone in cui non è ancora chiaro quando le attività potranno ripartire, piccoli musei in grossa difficoltà, lavoratori che non hanno ancora ricevuto ristori. Insomma, la situazione è variegata, sotto uno stesso grido allarmante: servono risposte. Il Recovery Plan può essere un’opportunità se si prevedono per la cultura e il turismo progetti indirizzati ad un ripensamento sostanziale del settore, partendo da un’analisi del reale fabbisogno.
Secondo voi esiste una ricetta – mi passi il termine – per migliorare concretamente la situazione dei professionisti della cultura?
Nel corso degli anni ci abbiamo riflettuto tanto e abbiamo avanzato diverse proposte. La ricetta per noi è il Sistema Culturale Nazionale e bisogna partire da un cambio radicale di approccio e prospettiva. Nell’ultima data di attivazione che abbiamo lanciato, e che ha coinvolto tantissime piazze italiane, anche con l’attivazione spontanea di diversi lavoratori del settore, chiedevamo di ripartire da tre parole chiave: riconoscimento, risorse e spazi, sotto un unico grande slogan “non è tempo libero”. Ecco, abbiamo l’urgenza di cambiare l’approccio al settore culturale, ridandogli la dignità necessaria e riconoscendo il ruolo centrale per il benessere della società. E, finalmente, dimostrare che quello della cultura è un servizio essenziale.